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Diamanti. Unicredit, sentenza Tar Lazio n. 10966/2018
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Sentenza di Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, I sez
16 novembre 2018 16:18
 
Pubblicato il 14/11/2018
N. 10966/2018 REG.PROV.COLL.
N. 13344/2017 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 13344 del 2017, proposto da 
Unicredit S.p.A, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Antonio Lirosi, Piero Fattori, Salvatore Spagnuolo e Fabrizio Carbonetti, elettivamente domiciliata in Roma, via delle Quattro Fontane, 20, presso lo studio dell’avv. Antonio Lirosi; 

contro
Autorità garante della concorrenza e del mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale domicilia in Roma, via dei Portoghesi, 12; 

nei confronti
Altroconsumo, Intermarket Diamond Business S.p.A, Idb Intermediazioni S.r.l., non costituiti in giudizio; 

e con l'intervento di
Associazione codici, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ivano Giacomelli, domiciliata, ex art. 25 c.p.a., in Roma, presso la Segreteria del Tar;

per l'annullamento e/o la riforma
- del provvedimento dell'AGCM n. 26757 assunto in data 20 settembre 2017, notificato a UniCredit il successivo 30 ottobre 2017 e pubblicato nel Bollettino dell'AGCM n. 30/17, con il quale è stato deliberato: “a) che la pratica commerciale […] posta in essere dalle società Intermarket Diamond Business – IDBS.p.A., IDB Intermediazioni S.r.l, UniCredit S.p.A. e Banco BPM S.p.A. costituisce, per le ragioni e nei limiti esposti in motivazione, una pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 20 e 21 comma 1, lettere b), c), d) e f), 22, nonché 23, comma 1, lettera t), del Codice del Consumo, e ne vieta l'ulteriore continuazione; “d) di irrogare alla società UniCredit S.p.A., per la violazione di cui alla precedente lettera a), una sanzione amministrativa pecuniaria di 4.000.000 € (quattro milioni di euro)”; “g) che i professionisti Intermarket Diamond Business – IDB S.p.A., IDB Intermediazioni S.r.l., UniCredit S.p.A., Banco BPM S.p.A., comunichino all'Autorità, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica del presente provvedimento, le iniziative assunte in ottemperanza alla diffida di cui al punto a) e che, entro il medesimo termine, Intermarket Diamond Business – IDB S.p.A. e IDB Intermediazioni S.r.l. comunichino all'Autorità le iniziative assunte in ottemperanza alla diffida di cui al punto b)” (“Provvedimento”);
- di ogni altro atto preordinato, conseguente o comunque connesso.


Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 ottobre 2018 la dott.ssa Roberta Cicchese e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO
Con il provvedimento indicato in epigrafe l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora in avanti anche Autorità o AGCM) ha ritenuto che una pratica commerciale posta in essere Intermarket Diamond Business S.p.A., IDB Intermediazioni S.r.l., UniCredit S.p.A. e un altro istituto di credito - e consistita nella prospettazione omissiva e ingannevole ai consumatori di alcune caratteristiche dell’investimento in diamanti – costituisse una pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 20, 21, comma 1, lettere b), c) d) e f), 22, nonché 23, comma 1, lettera t), del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, ne ha vietato l’ulteriore diffusione e ha irrogato alla ricorrente la sanzione amministrativa pecuniaria di 4.000.000 euro.
Con il medesimo provvedimento l’Autorità ha ritenuto la ricorrenza di altra pratica commerciale scorretta, imputabile alle sole IDB e IDB Intermediazioni.
La pratica per la quale la ricorrente è stata sanzionata è stata ravvisata dall’Autorità nella diffusione di materiale promozionale, predisposto da IDB e reso disponibile anche attraverso il canale bancario cui si rivolgeva il consumatore interessato all’acquisto, che rappresentava in modo ingannevole ed omissivo, i seguenti aspetti: a) il prezzo di vendita dei diamanti, fissato in maniera autonoma dal professionista e tale da comprendere costi e margini di importo complessivamente superiore al valore della pietra, ma presentato come quotazione di mercato, l’andamento dei quali veniva pubblicato, a pagamento, su giornali economici, b) l’aspettativa di apprezzamento del valore futuro dei diamanti, attraverso grafici costruiti sull’andamento dei propri prezzi di vendita presentati come “quotazioni” e messe a confronto con indici ufficiali e quotazioni di titoli stabilite in mercati regolamentati, c) la facile liquidabilità e rivendibilità del diamante, quando invece l’unico canale di rivendita attraverso il quale avrebbero potuto essere realizzati i guadagni prospettati è rappresentato dagli stessi professionisti, d) la qualifica di leader di mercato, impiegata senza ulteriori precisazioni al fine di conferire un maggiore affidamento alla propria offerta.
Il ricorso è affidato alle seguenti censure:
I – Violazione e falsa applicazione dell’art. 27 del codice del Consumo e 97 Cost. Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche e, in particolare, difetto di istruttoria, violazione del principio del buon andamento, sviamento di potere.
Il provvedimento sarebbe viziato dalla mancata acquisizione del parere della Banca d’Italia, autorità di regolazione competente in materia in ragione del fatto che la stessa AGCM ha rilevato come quella sanzionata costituisca attività connessa o strumentale all’attività bancaria.
II. Non imputabilità a Unicredit della pratica contestata. Violazione e falsa applicazione dell’art. 18 del d.lgs. 206/205 (codice del consumo) e della direttiva 2005/29/CE. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della l. n. 689/1981. Eccesso di potere in tutte le figure sintomatiche e, in particolare, mancanza dei presupposti, difetto di istruttoria, difetto di motivazione, contraddittorietà, perplessità.
Non sussisterebbero i presupposti fattuali per addebitare ad Unicredit una responsabilità concorrente, la cui ricorrenza è stata ravvisata dall’Autorità nell’esistenza di un ritorno economico per la banca, nel fatto che la banca venisse percepita dal consumatore come controparte di prima istanza e dall’utilizzo da parte della banca di materiale divulgativo predisposto da IDB per illustrare il prodotto.
In realtà il ruolo della Banca si sarebbe limitato a fornire una mera segnalazione in ordine all’esistenza del prodotto.
Il cosiddetto “ritorno economico”, peraltro, rappresenterebbe un mero (e parziale) ristoro per la perdita di una potenziale fetta di clienti che, investendo in diamanti, sottrarrebbero risorse agli investimenti bancari proposti da Unicredit.
L’assenza di una comune pianificazione sarebbe confermata dal contenuto dell’accordo di collaborazione sottoscritto da Unicredit e IDB.
Il consumatore, peraltro, fin dal primo contatto veniva reso edotto del fatto che il suo interlocutore sarebbe stato IDB, ciò che veniva ribadito nella brochure informativa e nel modulo di acquisto.
Neppure sarebbe ravvisabile alcuna violazione dell’onere di diligenza gravante su Unicredit, atteso che IDBè uno dei primari operatori di settore e l’attività era stata sottoposta al positivo scrutinio della Consob.
Quanto, infine, ai reclami rivolti a Unicredit da alcuni consumatori, essi non potrebbero costituire prova della responsabilità della banca, atteso che, in assenza di utili prove in ordine all’esistenza di una condotta ad essa imputabile, sarebbero espressione di una percezione soggettiva di alcuni clienti.
III Sulla illegittimità della sanzione. Violazione e falsa applicazione dell’art. 27, comma 9, del codice del consumo. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 11 della legge n. 689/1981. Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche ed in particolare difetto di motivazione, illogicità manifesta, difetto di istruttoria, ingiustizia ed irragionevolezza manifeste, sviamento difetto assoluto dei presupposti per l’irrogazione della sanzione.
L’Autorità avrebbe mal apprezzato la gravità dei fatti e avrebbe violato il principio della responsabilità personale delle sanzioni amministrative.
L’AGCM, infine, non avrebbe correttamente stimato l’apporto causale della ricorrente alla realizzazione della pratica, non avendo avuto Unicredit consapevolezza della scorrettezza della condotta di IDB o possibilità di influire sulla stessa.
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, costituita in giudizio, ha chiesto il rigetto del gravame.
L’Associazione codici è intervenuta ad opponendum.
All’udienza del 17 ottobre 2018 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
Il ricorso è infondato.
In via preliminare occorre rilevare come le censure articolate in gravame sono tese a dimostrare la riconducibilità della condotta contestata a IDB, o, quanto meno, ad escludere la responsabilità di Unicredit.
Non si rinvengono, pertanto, censure volte a contestare nella sostanza la definizione di scorrettezza della pratica in sé considerata, che quindi può darsi per acclarata.
Con il primo motivo di doglianza la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 27, comma 1 bis, del Codice del Consumo per non essere stato acquisito il parere della Banca d’Italia, Autorità di regolazione competente nel caso di specie.
La prospettazione non può essere condivisa.
La norma invocata dispone che “Anche nei settori regolati, ai sensi dell'articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell'Autorità di regolazione competente. Resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta.”.
Nel caso in esame, l’attività oggetto di sanzione, definita dalla stessa Banca d’Italia in un parere del 2010, come meramente “connessa” all’attività bancaria, non rientra nell’ambito di regolamentazione della stessa.
Si tratta, infatti, di attività estranea al settore creditizio o finanziario, che solo in via occasionale viene svolta dagli istituti di credito.
Trova dunque applicazione l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il coinvolgimento dell'Autorità di regolazione è necessario solo quando, diversamente da quanto accade nel caso in esame, la fattispecie sulla quale AGCM interviene, in applicazione della disciplina a tutela del consumatore di cui al Codice del Consumo, insista o coinvolga il settore bancario in senso proprio (cfr., Tar Lazio, Roma, sez. I, 22 ottobre 2015, n. 12082, e 17 maggio 2016, n. 5809).
Con il secondo motivo di doglianza Unicredit contesta l’imputabilità ad essa ricorrente della pratica commerciale sanzionata.
La prospettazione non può essere condivisa, avendo l’Autorità ben ricostruito i fatti ed esercitato, in maniera logica e congruente, la valutazione discrezionale di ingannevolezza della pratica.
Il provvedimento, infatti, ai paragrafi 114 e ss., evidenzia come, in forza dell’accordo di collaborazione sottoscritto tra IDB e Unicredit, la banca fosse tenuta a mettere a disposizione dei clienti, nei propri locali, il materiale divulgativo predisposto da IDB, provvedendo anche a raccogliere gli ordini di acquisto e ad inoltrarli, accettando, altresì i bonifici di pagamento.
La delibera rappresenta inoltre come, per l’attività svolta, la banca conseguiva una provvigione pari ad una percentuale dell’operazione conclusa (tra il 10% e il 20%, valore il cui importo non si concilia con la pretesa natura indennitaria).
Il provvedimento, anche alla luce del contenuto delle linee guida operative ad uso interno dei dipendenti della banca e di circolari interne, analizzate ai paragrafi 117 e seguenti, rileva poi come la banca avesse voluto offrire ai propri clienti l’opportunità di diversificare una quota delle proprie disponibilità, in ciò realizzando un effetto di fidelizzazione, e come i funzionari della banca accettassero le proposte di acquisto dai clienti, per poi trasmetterle a IDB, che comunicava la sua accettazione ai clienti sempre tramite i dipendenti Unicredit, ciò che sicuramente ingenerava nell’utente la percezione del fatto che la banca fosse il suo interlocutore.
Già tali evidenze dimostrano come l’attività di “segnalazione” di Unicredit, al di là della sua formale definizione, comportasse un ruolo attivo nella dinamica contrattuale complessiva in cui il consumatore era coinvolto.
Il ruolo attivo della ricorrente è poi confermato dai reclami dei clienti e dalle segnalazioni delle associazioni, tali, nel loro complesso, da giustificare la conclusione, rassegnata nei paragrafi 179 e seguenti, secondo cui la pratica commerciale sanzionata “si è realizzata ed è stata favorita proprio dal canale di vendita di cui la società si è avvalsa, costituito dalla rete bancaria” e che il quadro probatorio complessivamente raccolto faceva emergere il fatto che “i funzionari bancari ai quali normalmente i clienti si rivolgevano per la consulenza sui propri investimenti proponevano alla propria clientela … l’acquisto dei diamanti come forma di investimento alternativa”.
La logica linearità della ricostruzione e il suo essere supportata da puntuali riscontri probatori non viene dunque scalfita, come sostenuto dalla ricorrente, dall’atomistico riferimento ad alcune clausole contrattuali o a previsioni di circolari interne che escludevano formalmente lo svolgimento, da parte della banca, di un’attività promozionale.
Al fine di valutare la ricorrenza di una “pratica commerciale scorretta”, infatti, le espressioni contenute nelle singole clausole vanno valutate alla luce del complesso degli accordi negoziali esistenti e, ancor di più, della pratica attuazione degli stessi.
Sotto tale profilo appare di estremo rilievo il contenuto dei reclami, nei quali, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, appare chiara l’attività di promozione e consiglio svolta dai funzionari della ricorrente (cfr. paragrafi 130 e 131, che riportano il contenuto di due segnalazioni pervenute all’Autorità in cui i clienti rappresentano, rispettivamente, di essere stati vivamente consigliati all’investimento in diamanti dal funzionario Unicredit, o di esservi stati indotti, previa prospettazione dei vantaggi, e, ancora i paragrafi 133, 134 e 135, che riportano il contenuto di reclami indirizzati alla banca stessa e riferiscono di un’attività promozionale particolarmente intensa e insistente dei funzionari Unicredit per convincere i clienti all’acquisto dei diamanti IDB).
Si tratta di documenti di inequivoca valenza probatoria e intrinseca credibilità, tali da escludere in via assoluta la ravvisabilità del prospettato “cortocircuito argomentativo” in cui, secondo Unicredit, sarebbe caduta l’Autorità.
La responsabilità della ricorrente per i fatti oggetto del provvedimento risulta poi puntualmente correlata anche al ritorno economico da questa conseguito a seguito dell’attività di promozione dei diamanti di investimento (i cui importi ammontano, giusta quanto riferito nel paragrafo 123, a circa 40 – 50 milioni di euro nel periodo 2011 – 2016), nonché al, dichiaratamente perseguito, effetto di fidelizzazione della clientela, che aveva la sensazione di avere a disposizione un più ampio servizio consulenziale in materia di investimenti (sulla rilevanza del ritorno economico del professionista al fine di fondare la sua responsabilità per pratica commerciale scorretta, a prescindere dalla estraneità del prodotto offerto rispetto alla gamma tipica di servizi forniti cfr, Consiglio di Stato, sez. VI, 21 marzo 2018, n. 1820).
In proposito appare utile ricordare come il Codice del consumo, all’art. 2, comma 2, lett. c), prevede il diritto dei consumatori ad essere correttamente informati, stabilendo espressamente che essi hanno diritto ad “un'adeguata informazione e ad una corretta pubblicità” ed ancora, alla lettera e), “alla correttezza, alla trasparenza ed all'equità nei rapporti contrattuali”.
Inoltre, ancor più nel dettaglio, l’art. 5, comma 3, prevede che “le informazioni al consumatore, da chiunque provengano, devono essere adeguate alla tecnica di comunicazione impiegata ed espresse in modo chiaro e comprensibile, tenuto conto anche delle modalità di conclusione del contratto o delle caratteristiche del settore, tali da assicurare la consapevolezza del consumatore”.
Non vanno infine dimenticate le indicazioni di IDB, che ha dichiarato come la maggior parte dei contratti venisse conclusa tramite il canale bancario.
Conclusivamente sul punto, il Collegio ritiene di richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale la nozione di “professionista” rinveniente dal “Codice del consumo” deve essere intesa in senso ampio, essendo sufficiente che la condotta venga posta in essere nel quadro di una attività di impresa finalizzata alla promozione e/o commercializzazione di un prodotto o servizio. In tal senso, integra la nozione di professionista autore (o co-autore) della pratica commerciale “chiunque abbia una oggettiva cointeressenza diretta ed immediata alla realizzazione della pratica commerciale medesima” (cfr. Tar Lazio, Roma, sez. I, 10 gennaio 2017, nn. 311 e 312, 7 aprile 2015, n. 5039; 5 gennaio 2015, n. 41; 25 marzo 2015, n. 4579).
Ne discende che, ai fini dell'imputabilità dell'illecito ai sensi del Codice del Consumo, ciò che rileva è che il professionista abbia con il suo contegno contribuito, in qualità di co-autore, alla realizzazione dell'illecito, non solo ove il suo contributo abbia avuto efficacia causale, ponendosi come condizione indefettibile alla realizzazione della violazione, ma anche allorquando il contributo abbia sostanziato una agevolazione dell’altrui condotta, traendone un diretto vantaggio economico, pur se il professionista non abbia direttamente interagito con il consumatore (Consiglio di Stato, sez. VI, 22 giugno 2011, n. 3763).
La doglianza va pure respinta nella parte in cui la ricorrente sostiene di non essere responsabile della pratica commerciale scorretta per avere essa agito con la massima diligenza, sia perché ha scelto come riferimento un operatore di primaria importanza nel settore, sia perché, per vincolo contrattuale, non poteva e non doveva verificare il materiale pubblicitario predisposto da IDB.
In proposito appare opportuno, in via preliminare, ricordare come la disciplina di tutela consumeristica, nel presupporre l’attribuibilità psicologica del fatto al soggetto, non postula necessariamente la presenza del dolo (specifico o generico), sicché la configurabilità della fattispecie prescinde dalla sussistenza di un elemento volitivo costituito dal preordinato proposito di porre in essere una condotta antigiuridica, dimostrandosi, per l’effetto, sufficiente la sussistenza dell’elemento psicologico della colpa, vale a dire di un difetto di diligenza rilevabile dal complessivo atteggiarsi del comportamento posto in essere dall’operatore commerciale; cosicché non è affatto richiesto che l’imprenditore abbia volontariamente posto in essere una condotta illecita, ma è sufficiente che, pur sussistendo le obiettive condizioni per scongiurarne il verificarsi, quest’ultimo abbia omesso di modellare il proprio comportamento ai canoni dell'ordinaria diligenza (cfr., da ultimo, Tar Lazio Roma, sez. I, 3 gennaio 2017, n. 61).
Per costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, infatti, nelle sanzioni amministrative è necessaria e sufficiente la coscienza e volontà della condotta attiva od omissiva, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, giacché la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l'onere di provare di aver agito senza colpa (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 29 marzo 2011, n. 1897; Tar Lazio, sez. I, 22 ottobre 2015, n. 12081; 18 aprile 2012, n. 3503).
Nel caso in esame la ricorrente stessa ammette di non aver operato alcuna verifica sul contenuto dell’offerta, comportamento questo che sicuramente non risponde alla diligenza professionale che ci si attende dalle banche laddove esse decidano di fornire ai propri clienti una consulenza in materia di investimenti.
Né vale invocare l’esistenza del parere Consob, che riguardava la liceità dell’attività in astratto e non le concrete modalità con le quali veniva prospettata l’offerta, al controllo delle quali la ricorrente era dunque tenuta.
Va infine respinto il terzo motivo di doglianza, con il quale Unicredit ha contestato l’attività di quantificazione della sanzione.
In proposito deve osservarsi come, nella determinazione della sanzione, l’Autorità si è attenuta ai parametri di riferimento individuati dall’art. 11 della legge n. 689/81, in virtù del richiamo previsto all'articolo 27, co. 13, del d.lgs. n. 206/05, e quindi ha considerato la gravità della violazione, l’opera svolta dall'impresa per eliminare o attenuare l'infrazione, la personalità dell'agente e le condizioni economiche dell'impresa stessa (cfr. provvedimento impugnato, paragrafi 236 e seguenti).
Con particolare riferimento alla gravità della violazione, il provvedimento ha evidenziato, con riferimento a tutte le parti del procedimento, l’ampia diffusione della pratica, dipendente sia dalle modalità utilizzate per la comunicazione (internet, stampa), sia dalla diffusione di materiale pubblicitario cartaceo presso le molteplici filiali delle banche di riferimento.
L’Autorità ha pure considerato l’asimmetria informativa esistente tra professionista e consumatori, la cui ricorrenza risulta puntualmente argomentata nella parte di provvedimento riguardante la sussistenza della pratica e il pregiudizio economico subito dai consumatori.
Con particolare riferimento alla ricorrente poi, il provvedimento ha considerato, in primo luogo, la dimensione economica del professionista, “tra i principali operatori del sistema bancario”, che nel corso del 2016 ha realizzato un fatturato di 39,4 miliardi di euro.
Diversamente da quanto prospettato in ricorso, pertanto, il fatto che la sanzione inflitta a Unicredit sia pari a più del doppio di quella inflitta a IDB, non deriva dallo scorretto apprezzamento dei contribuiti causali dei due professionisti - peraltro in concreto assolutamente equivalenti, atteso che in assenza del canale bancario la diffusione della pratica sarebbe stata di gran lunga inferiore - ma dipende evidentemente dal fatturato delle stesse.
Né la somma determinata importa una violazione del principio di ragionevolezza, alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini di una efficace funzione deterrente, la sanzione va parametrata al fatturato realizzato dall’impresa e non al prodotto di volta in volta coinvolto nella condotta accertata (così, ex multis, Tar Lazio, Roma, sez. I, 22 giugno 2018, n. 7009 e Consiglio di Stato, Sez. VI, 5 agosto 2013, n. 4085).
Deve infatti osservarsi come la sanzione che viene irrogata per le pratiche commerciali scorrette non ha funzione puramente reintegratoria dello status quo ante, e dunque una matematica corrispondenza con gli effetti pratici della condotta o il vantaggio economico conseguito dal professionista, essendo la stessa finalizzata a garantire un’effettiva efficacia deterrente, generale e speciale, alla luce di tutti i parametri sopra richiamati.
Neppure possono essere condivise le argomentazioni in punto di scorretto apprezzamento della durata della pratica, che mirano a riaffermare quanto sostenuto nel secondo motivo di ricorso in ordine alla pretesa non configurabilità di un difetto di diligenza.
Del pari correttamente è stata valutata la ricorrenza di una circostanza aggravante, atteso che la considerazione della personalità dell’agente non richiede che l’esistenza di una precedente violazione da valutare ai fini della recidiva presenti tratti di somiglianza con quella oggetto di un nuovo provvedimento sanzionatorio.
Vanno infine respinte le argomentazioni tese a contestare la misura della riduzione concessa a fronte della riconosciuta sussistenza di una circostanza attenuante (pari a euro 200.000,00), le quali impingono inammissibilmente nella valutazione discrezionale dell’Autorità.
In conclusione il ricorso va respinto.
Le spese di lite possono essere compensate in ragione della novità della fattispecie.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 ottobre 2018 con l'intervento dei magistrati:


Carmine Volpe, Presidente
Roberta Cicchese, Consigliere, Estensore
Roberta Ravasio, Consigliere
 
 
 
 
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