testata ADUC
Diamanti. DPI, sentenza Tar Lazio n. 10965/2018
Scarica e stampa il PDF
Sentenza di Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, I sez
16 novembre 2018 16:11
 
Pubblicato il 14/11/2018
N. 10965/2018 REG.PROV.COLL.
N. 12261/2017 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 12261 del 2017, proposto da 
Diamond Private Investment S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Maria Cristina Lenoci, Mario Sanino, Fabio Cintioli, Carlo Celani, Dario Ruggiero e Lorenzo Coraggio, elettivamente domiciliata in Roma, viale Parioli, 180, presso lo studio legale Sanino; 

contro
Autorità garante della concorrenza e del mercato e Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale domiciliano in Roma, via dei Portoghesi, 12; 

nei confronti
Altroconsumo - Associazione indipendente di consumatori;

per l'annullamento
del provvedimento n. 26758 del 20 settembre 2017.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 ottobre 2018 la dott.ssa Roberta Cicchese e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO
Con il provvedimento indicato in epigrafe l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora in avanti anche Autorità o AGCM) ha ritenuto che due pratiche commerciali poste in essere dalla Diamond Private Investment Spa (d’ora in avanti anche il professionista o DPI) - consistite nella prospettazione omissiva e ingannevole ai consumatori di alcune caratteristiche dell’investimento in diamanti e nell’aggravamento delle condizioni per il diritto di recesso – costituissero una pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 20, 21, comma 1, lettere b), c) d) e f), 22, nonché 23, comma 1, lettera t), e 49, 50, 52 e 54 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, ne ha vietato l’ulteriore diffusione e ha irrogato alla ricorrente la sanzione amministrativa pecuniaria di 1.000.000,00 di euro.
La prima violazione ritenuta sussistente (pratica sub A) è consistita nella diffusione di materiale promozionale, predisposto da DPI e reso disponibile anche attraverso il canale bancario cui si rivolgeva il consumatore interessato all’acquisto, in cui si rappresentavano in modo ingannevole ed omissivo: a) il prezzo di vendita dei diamanti, presentato come quotazione di mercato e pubblicato a pagamento su un giornale economico; b) l’andamento del mercato e l’aspettativa di apprezzamento del valore futuro dei diamanti, attraverso grafici costruiti sull’andamento dei propri prezzi di vendita presentati come “quotazioni”, messe a confronto con l’inflazione e le quotazioni ufficiali dell’oro; c) la facile liquidabilità e rivendibilità del diamante, quando invece l’unico canale di rivendita attraverso cui avrebbero potuto essere realizzati i guadagni prospettati è rappresentato da DPI; 4) la qualifica di leader di mercato del professionista, impiegata senza ulteriori precisazioni, al fine di conferire un maggiore affidamento alla propria offerta.
La seconda violazione (pratica sub B) è stata ravvisata nell’aver DPI predisposto condizioni di compravendita che violano i diritti dei consumatori in materia di diritto di ripensamento, il quale è menzionato genericamente, senza allegazione del corrispondente modulo di recesso, e le modalità di esercizio del quale vengono limitate all’invio di una raccomandata.
Con il medesimo provvedimento, e solo con riferimento alla pratica sub A), sono stati sanzionati due istituti bancari che costituivano i principali canali di vendita dei diamanti di DPI.
Il procedimento, unitamente ad un altro riguardante un secondo professionista operante nel medesimo settore e le banche di riferimento di questo, aveva avuto inizio nel gennaio 2017 a seguito di una segnalazione dell’Associazione altroconsumo e di una trasmissione di approfondimento, Report, andata in onda nell’autunno 2016.
Il ricorso è affidato alle seguenti censure:
Parte I – Modalità omissive ed ingannevoli di offerta dei diamanti da investimento.
I - Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche; in particolare difetto di presupposto, travisamento, incoerenza e illogicità. Difetto di istruttoria. Violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 21, 22 e 23 del codice del consumo.
L’Autorità avrebbe erroneamente ravvisato nei fatti oggetto del provvedimento sanzionatorio la ricorrenza di comportamenti riconducibili alla nozione di pubblicità ingannevole.
E infatti, non corrisponderebbe a verità l’affermazione secondo cui DPI avrebbe presentato i prezzi dei diamanti pubblicati a pagamento su Il Sole 24 ore come quotazioni ufficiali di mercato, avendo il professionista sempre rappresentato che le quotazioni erano pubblicate a sua “cura”.
Tale specificazione avrebbe impedito che il consumatore medio, destinatario dell’informazione, potesse percepire i parametri pubblicati come una quotazione di mercato e non, come effettivamente erano, un prezzo di vendita.
Peraltro, i prezzi praticati da DPI sarebbero in linea con quelli di altri operatori retail per prodotti comparabili e addirittura con i listini utilizzati dall’Autorità quali termini di paragone (salvo il gap dipendente dal fatto che questi ultimi non considerano i costi di trasporto e di distribuzione, oltre che la tassazione).
La particolare natura del bene, osserva ancora la ricorrente, individua, di per sé, un “consumatore medio” di particolare competenza, assolutamente in grado di decifrare il messaggio diffuso dal professionista, tanto più che lo stesso quotidiano economico sul quale venivano pubblicate le quotazioni specificava, quanto alla provenienza del listino pubblicato, che lo stesso era di provenienza DPI, ciò che era confermato dalla collocazione dell’informativa insieme ad altre inserzioni pubblicitarie.
Del pari erroneamente l’Autorità avrebbe ravvisato l’ingannevolezza delle informazioni fornite da DPIsull’andamento crescente dei prezzi dei diamanti, desumendola dalla circostanza del non essere le stesse in linea con i parametri di riferimento “maggiormente accreditati a livello internazionale”.
L’INDEX-DRB, al quale l’Autorità ha fatto riferimento, non sarebbe riferibile infatti ai diamanti di investimento.
La stabilità dei valori di tale tipologia di diamanti e le previsioni di futuro apprezzamento degli stessi, inoltre, sarebbero affermate in numerosi studi, di sicura affidabilità, citati pure nel provvedimento gravato.
Neppure corrisponderebbe a verità l’addebito secondo cui DPI avrebbe taciuto, nel grafico e nel materiale informativo, la sussistenza di rischi connessi alla volatilità del prezzo dei diamanti nel breve e nel medio periodo, lasciando intendere che, in caso di rivendita, l’investimento avrebbe consentito di realizzare un profitto in qualsiasi momento, atteso che le “Condizioni Generali” contenevano una specifica sezione “Rischi”.
Peraltro, in maniera assolutamente veritiera, la rivendibilità era garantita ai prezzi vigenti al momento della vendita e, al fine di consentire il conseguimento di un utile, il professionista consigliava di considerare per l’investimento un orizzonte temporale medio – lungo.
Rappresenta quindi come uniche difficoltà di ricollocazione rilevate in concreto sarebbero riconducibili al panic selling provocato dalla trasmissione televisiva Report.
Da ultimo, la ricorrente rileva come anche l’affermazione secondo cui DPI è un operatore leader del settore sarebbe supportata da dati di fatto.
Parte II – Violazione dei diritti dei consumatori in merito al recesso
I - Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche. In particolare, difetto di motivazione. Contraddittorietà. Difetto istruttorio. Travisamento dei fatti.
La richiesta di confermare a mezzo di raccomandata a/r il recesso trasmesso con altra modalità sarebbe stata dettata dalla necessità di garantire la certezza delle relazioni commerciali, ferma la scelta tra varie modalità di comunicazione della volontà di recidere il vincolo contrattuale.
Part. III – La sanzione
I - Eccesso di potere in tutte le sue figura sintomatiche. In particolare, difetto di istruttoria e di motivazione. Illogicità e contraddittorietà. Manifesta ingiustizia. Travisamento dei fatti.
La sanzione irrogata a DPI sarebbe ingiusta e sproporzionata, atteso che i parametri da cui è stata desunta la gravità (asimmetria informativa e rilevante pregiudizio economico dovuto al prezzo elevato dei diamanti) sarebbero insussistenti in fatto, in ragione della ampia diffusione del materiale informativo consegnato al cliente fin dal primo contatto e in considerazione del fatto che era sempre consigliato di investire una somma tra il 5 e il 10% massimo del proprio patrimonio.
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, costituita in giudizio, ha chiesto il rigetto del ricorso.
Alla camera di consiglio del 18 gennaio 2018, il Collegio ha fissato l’udienza di merito ai sensi dell’art. 55, comma 10, c.p.a.
Alla successiva camera di consiglio del 28 febbraio 2018, alla luce di fatti nuovi rappresentati da parte ricorrente, il Collegio, con esclusivo riferimento al periculum e salva la necessità di approfondimento del merito, ha sospeso l’esecuzione del provvedimento impugnato con riferimento alla sola irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria nei confronti della società ricorrente, previa prestazione di una cauzione.
All’udienza del 17 ottobre 2018 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
Il ricorso, all’approfondito esame, proprio della fase di merito, è infondato.
Come visto nell’esposizione in fatto, con la delibera gravata l’Autorità ha ritenuto la ricorrenza di due distinte pratiche commerciali scorrette, entrambe realizzate nel campo della vendita dei diamanti di investimento, imputabili sia a DPI sia, quanto alla prima pratica ravvisata, alle due banche attraverso le quali avvenivano la maggior parte delle vendite.
Il provvedimento sanzionatorio, premessa un’introduzione sulla particolare tipologia dei “diamanti di investimento”, sui canali di offerta in Italia e sulla disciplina normativa della vendita degli stessi, esamina il materiale pubblicitario diffuso da DPI, direttamente o a mezzo delle banche convenzionate.
La delibera rileva, quindi, analizzando le diverse tipologie di materiale, come gli aspetti sui quali viene focalizzata l’attenzione del consumatore attengano alla descrizione dei diamanti offerti in vendita da DPIcome prodotti di particolare pregio e alla rappresentazione dei diamanti come “bene rifugio”, qualità derivante dalle quotazioni in costante crescita, dalla circolazione libera nel mercato globale e dalla facile liquidità dell’investimento, per la realizzazione della quale DPI propone un servizio di disinvestimento alle quotazioni pubblicate periodicamente, a sua cura, sul quotidiano Il Sole 24 ore.
Il provvedimento, oltre a riportare un grafico tratto dal quotidiano (che reca il logo della società, ma non l’indicazione del fatto che si tratti di un’inserzione pubblicitaria), rileva pure come le dette “quotazioni” venissero presentate, nei grafici allegati al materiale pubblicitario, come in costante crescita dal 1995 e poste a confronto con quelle relative all’andamento dell’inflazione e del prezzo dell’oro.
Quanto invece al disinvestimento, il provvedimento evidenzia come lo stesso veniva prospettato come realizzabile in massimo trenta giorni, al costo del 10%, più IVA, del valore corrispondente alle quotazioni in vigore alla data del mandato, pubblicate a cura della società su Il Sole 24 ore.
Passando all’esame delle risultanze istruttorie (uno studio Consob del 2017, gli studi di due società indipendenti depositati dalle parti nel corso del procedimento e le stesse dichiarazioni della DPI), il provvedimento evidenzia, poi, come le citate “quotazioni” non siano il risultato di un’attività di rilevazione di mercato da parte del professionista, ma siano il frutto di autonome scelte commerciali di DPI, che somma, al valore di acquisto (corrispondente a un importo inferiore al 50% del prezzo finale), sia dei veri e propri costi sia il proprio margine di guadagno, così che quello che viene pubblicizzato come un servizio offerto dal venditore costituisce, in realtà, una pubblicazione a pagamento dei suoi listini prezzo.
La delibera evidenzia ancora come l’assenza di una previa attività di rilevazione e la determinazione autonoma del prezzo rendano ragione dell’andamento costantemente crescente dei prezzi e come lo stesso disinvestimento in attivo sia subordinato ad una serie di circostanze assolutamente particolari (rivendita attraverso DPI, in condizioni di basse percentuali di disinvestimento), di incerta realizzazione e della cui necessaria ricorrenza il consumatore non veniva reso edotto.
Dopo aver esaminato i reclami dei consumatori e le argomentazioni delle parti, il provvedimento, nei paragrafi da 183 a 259, espone poi le ragioni della valutazione di scorrettezza delle due pratiche commerciali e procede, infine, alla quantificazione della sanzione, determinata in € 950.000,00 per la pratica sub A) ed € 50.000,00 per la pratica sub B).
Con il primo motivo di doglianza la ricorrente contesta, con riferimento ai singoli profili esaminati dall’Autorità, la ricorrenza di aspetti di ingannevolezza e omissività nella pratica sub A).
La prospettazione non può essere condivisa.
Con specifico riferimento alla presentazione del prezzo come “quotazione”, rileva il Collegio come il provvedimento ha evidenziato, con puntuale richiamo alla documentazione raccolta e alle dichiarazioni della stessa società sanzionata, come la cosiddetta quotazione rappresentava, in realtà, un prezzo determinato in maniera assolutamente autonoma dal professionista (dato, peraltro, non contestato dalla ricorrente), la quale, oltre a prospettare l’indicazione del costo come caratterizzata da una particolare affidabilità e oggettività, non rendeva in alcun modo comprensibile al consumatore l’effettiva incidenza del valore della pietra nella determinazione del costo finale.
La valutazione dell’Autorità in ordine all’effetto decettivo collegato al termine “quotazioni” appare poi puntualmente correlata sia al significato più immediato e diffuso del termine, sia alle modalità di presentazione delle stesse, a loro volta affidate a termini (“a cura di”) o modalità grafiche (quali la pubblicazione su un quotidiano economico di amplissima diffusione, dal valore particolarmente rassicurante) e la cui natura pubblicitaria non era facilmente riconoscibile.
In particolare, l’espressione “a cura di”, diversamente da quanto sostenuto in gravame, non appare sufficiente a mettere il possibile acquirente in condizione di comprendere che la determinazione era operata in via autonoma, sulla base di valutazioni commerciali di convenienza, suggerendo piuttosto, in considerazione del contesto di formulazione e della oggettiva idoneità dell’espressione ad individuare un’attività di rilevazione del prezzo corrente di un bene, che la società procedesse ad una indagine ad alto tasso di oggettività, pur in un mercato privo di fixing.
Il riferimento all’esistenza di altre voci di costo influenti sulla determinazione di prezzo, poi, non si presentava affatto come “analitica”, atteso che la percentuale di ricarico dipendente dalle altre voci menzionate nel materiale pubblicitario (invero estremamente alta e tale da integrare un ulteriore specifico profilo di decettività, puntualmente indicato dal provvedimento) non era in alcun modo percepibile, tanto più in considerazione della particolare enfasi riservata alla menzione dei servizi aggiuntivi proposti.
Sempre in punto di andamento dei prezzi va poi considerato come l’assenza di fixing ufficiali sull’andamento dei costi dei diamanti, circostanza che l’Autorità stessa riferisce nella prima parte del provvedimento, non comporta, come affermato in ricorso, l’inidoneità dei più diffusi indici di rilevazione a fornire un’indicazione affidabile intorno all’andamento di massima del settore, né implica, in considerazione del fatto che le stesse concernevano diamanti aventi caratteristiche parzialmente diverse da quelli venduti da DPI, l’inutilizzabilità degli indici ai fini di una comparazione con l’andamento dei prezzi praticati dalla ricorrente.
La ricorrente non può essere seguita neppure laddove afferma che dalla comparazione delle sue “quotazioni” con gli indici considerati dall’Autorità derivi una conferma dell’essere i prezzi praticati da DPI “in linea” con quelli praticati dai gioiellieri e con quelli raccolti durante l’istruttoria.
La sovrapponibilità, in ogni caso non riscontrabile in relazione ai prezzi, è infatti ravvisabile solo se riferita ad un tendenziale incremento di valore in un lungo intervallo temporale, tale da non tenere in considerazioni le oscillazioni di valore verificatesi nel medesimo arco di tempo (della cui effettiva ricorrenza danno tuttavia atto gli stessi studi prodotti dalla ricorrente nel corso del procedimento).
Anche sotto tale profilo, pertanto, l’Autorità ha correttamente evidenziato i profili di ingannevolezza e omissività dell’informazione pubblicitaria fornita.
Ad inficiare la tenuta logica della valutazione di decettività del messaggio connessa all’uso del termine “quotazione”, infine, a nulla vale indicare significati ulteriori del termine, atteso che il provvedimento ha puntualmente motivato come l’accezione della parola alla quale faceva riferimento il messaggio è quella di più immediata percezione e che l’utilizzo di tale espressione, anche alla luce del contenuto delle segnalazioni e dei reclami, ha avuto un effetto suggestivo sui consumatori.
Del pari argomentata in maniera logica appare la motivazione del provvedimento impugnato nella parte in cui ravvisa una falsa rappresentazione dell’andamento del mercato e dell’aspettativa di rivendita dei diamanti, peraltro logicamente dipendente dalla sopra descritta modalità di individuazione dei prezzi, tale da rimettere al professionista la possibilità di disegnare un andamento costantemente crescente, che non trova conferma in un mercato reale.
Al fine di negare la scorrettezza della pratica commerciale sotto i descritti profili non può essere invocata una speciale competenza del consumatore che si determina a realizzare un investimento, dovendosi, anche sul punto, condividere la ricostruzione dell’Autorità secondo cui, al contrario, la particolare affidabilità delle banche intermediarie e l’autoreferenzialità della ricorrente contribuivano a creare nel potenziale acquirente una particolare sensazione di affidabilità e sicurezza dell’investimento medesimo.
In proposito, deve pure rilevarsi come, proprio perché le disposizioni in materia di pubblicità ingannevole non hanno la mera funzione di assicurare una reazione alle lesioni arrecate agli interessi del consumatore, ma si collocano su di un più avanzato fronte di prevenzione, essendo le stesse tese ad evitare effetti dannosi anche soltanto ipotetici, la giurisprudenza ha escluso “la necessità sia che rispetto ad un dato comunicato venga accertata la condizione soggettiva media di intelligenza del consumatore, sia che risulti un pregiudizio economico derivante dalla pubblicità ingannevole” (così T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 29 novembre 2014, n. 11995, nel senso che la tutela apprestata dalle norme sulla pubblicità ingannevole non si commisura alla posizione degli acquirenti dotati di specifica competenza, avvedutezza e di particolari cognizioni merceologiche, ma a quella degli acquirenti di media accortezza o alla generalità dei consumatori, cfr. pure T.A.R. Lazio, Roma, 3 luglio 2012, n. 6026).
Medesima condivisione merita la valutazione dell’AGCM laddove contesta alla ricorrente di aver taciuto, sia nel grafico che nel materiale informativo, la sussistenza di rischi connessi alla volatilità del prezzo dei diamanti nel breve e nel medio periodo, lasciando intendere che in caso di rivendita in qualsiasi momento ci sarebbe stato un profitto, atteso che le informazioni sulle peculiari condizioni di rischio risultavano accessibili al consumatore solo dopo che lo stesso era stato indotto a contattare il professionista o gli istituti bancari di riferimento.
Giova rammentare che, in materia di pubblicità ingannevole, la giurisprudenza di questo Tar ha sempre evidenziato che rileva il messaggio che “prende l’attenzione” al primo contatto, che i relativi “claims” pubblicitari devono sempre essere connotati da tutti gli elementi essenziali per un corretto e obiettivo discernimento (Tar Lazio, Sez. I, 12 giugno 2015, n. 8253) e che la decettività del messaggio promozionale può anche riguardare singoli aspetti dello stesso e le specifiche modalità di presentazione del prodotto al fine di “agganciare” (l’attenzione de) il consumatore al primo contatto, senza che possa rilevare in senso contrario la circostanza per la quale, in altri momenti, lo stesso consumatore potesse approfondire la modalità di fruizione del prodotto stesso e le sue effettive qualità in relazione a quanto enfatizzato al primo contatto con evidenza grafica primaria (Tar Lazio, Sez. I, 30 ottobre 2017, n. 10834, 21 gennaio 2015, n. 994 e 16 novembre 2015, n. 12979).
Quanto alla rivendita, diversamente da quanto ritenuto dalla ricorrente, è stata proprio l’ondata di domande di disinvestimento provocata dalla trasmissione televisiva Report che ha dimostrato come le condizioni prospettate (in ordine ai tempi e al prezzo di rivendita) fossero subordinate alla ricorrenza di peculiari circostanze (basso indice di disinvestimento e ricollocazione sul mercato attraverso la medesima DPI), la cui necessaria sussistenza non era stata in alcun modo resa percepibile al consumatore nel momento in cui gli veniva proposto l’acquisto.
Con un ultimo ordine di argomentazioni la ricorrente rileva l’assenza di profili di ingannevolezza nell’affermazione di DPI di essere leader del settore, tanto più che l’informazione non è mendace e la società ha utilizzato la qualifica in maniera poco evidente.
Deve per contro considerarsi come il provvedimento ha inteso evidenziare come l’affermazione, oggettivamente utilizzata dalla ricorrente, fosse generica e non contestualizzata (è infatti priva di riferimenti geografici, temporali e così via), sanzionando poi il fatto che la stessa fosse astrattamente finalizzata, e in concreto idonea, a contribuire a creare nel consumatore una sensazione di particolare affidabilità dell’operatore.
Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente contesta la ravvisabilità di una pratica commerciale scorretta nella disciplina del recesso.
Anche tale doglianza va respinta.
In proposito deve, in primo luogo, rilevarsi come, non è contestata la ricorrenza, nella modulistica contrattuale predisposta da DPI, di una eccessivamente sintetica descrizione del diritto di ripensamento.
Neppure è contestato che la stessa prevedeva che il diritto di recesso dovesse essere esercitato mediante invio di una comunicazione, in forma libera, seguito, nelle 48 ore, da una lettera raccomandata di conferma.
Tale seconda modalità, come rilevato nel provvedimento, è oggettivamente in contrasto con quanto previsto dal codice del consumo in materia di recesso per ipotesi di contratti di vendita conclusi al di fuori dei locali commerciali del professionista (che attribuiscono al consumatore il diritto di recedere senza fornire motivazioni a mezzo di una dichiarazione che espliciti la volontà di recedere), tipologia contrattuale nella quale rientravano tutti i contratti conclusi da dipendenti DPI presso le filiali bancarie.
A fronte del chiaro dato normativo, a nulla rileva la dichiarata finalità di certezza asseritamente perseguita dalla ricorrente.
Va infine respinto il terzo motivo di doglianza, con il quale la ricorrente ha contestato l’attività di quantificazione della sanzione, con particolare riferimento alla sanzione di 950.000,00 euro comminata per la pratica sub A).
In proposito deve osservarsi come, in tale attività, l’Autorità si è attenuta ai parametri di riferimento individuati dall’art. 11 della legge n. 689/81, in virtù del richiamo previsto all'articolo 27, co. 13, del d.lgs. n. 206/05, e quindi ha considerato la gravità della violazione, l’opera svolta dall'impresa per eliminare o attenuare l'infrazione, la personalità dell'agente e le condizioni economiche dell'impresa stessa.
La gravità della violazione, in particolare, è stata correlata all’ampia diffusione della pratica, dipendente sia dalle modalità utilizzate per la comunicazione (internet, stampa, anche di tipo specializzato, percepita dal consumatore come di particolare affidabilità), sia dalla distribuzione di materiale pubblicitario cartaceo presso le molteplici filiali delle banche di riferimento.
L’Autorità ha pure considerato l’asimmetria informativa esistente tra professionista e consumatori che, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente e in ragione di quanto sopra osservato in relazione alla omissività e ingannevolezza del messaggio, permaneva, con riguardo a profili di sensibile importanza (quali il valore intrinseco della pietra e l’incidenza percentuale delle altre voci di costo, che sono concetti assolutamente diversi dalla mera comunicazione dell’esistenza di diverse componenti di prezzo che contribuiscono a determinare il valore finale), pur dopo la consegna del materiale informativo.
Quanto alla rivendibilità dei diamanti a condizioni non svantaggiose, poi, l’affermazione, come sopra ampiamente rilevato, appariva oggettivamente incompleta, in quanto non esplicitava il fatto di essere condizionata al permanere delle condizioni di scarso disinvestimento verificatesi negli anni passati e alla necessità di riutilizzo del medesimo canale di acquisto.
Lo scollamento tra prezzo e valore e il consequenziale pregiudizio economico subito dall’acquirente non assumono, poi, un rilievo inferiore in considerazione del fatto che il professionista consigliava di investire in diamanti un massimo del 10% del patrimonio.
Né vi era, in considerazione del fatto che si è in presenza di una fattispecie di pericolo, la necessità, invocata invece della ricorrente, di considerare, sotto il profilo degli effetti, la circostanza che i reclami pervenuti alla società siano stati solo 42 (numero, invero, tutt’altro che insignificante) e non abbiano riguardato il pregiudizio economico subito.
Deve in proposito osservarsi come la sanzione che viene irrogata per le pratiche commerciali scorrette non ha una funzione puramente reintegratoria, e dunque una matematica corrispondenza con il vantaggio economico conseguito dal professionista, essendo la stessa finalizzata a garantire un’effettiva efficacia deterrente, generale e speciale, alla luce di tutti i parametri sopra richiamati.
Quanto al preteso scorretto apprezzamento delle numerose e importanti misure concretamente adottate dal professionista e della situazione di difficoltà economica dell’azienda, infine, deve considerarsi il fatto che l’Autorità ha tenuto conto di entrambe le circostanze, pervenendo ad una riduzione di 300.000,00 euro pari a circa un quarto della sanzione determinata alla luce dei parametri sopra indicata e pari a € 1.250,000,00.
In conclusione il ricorso va respinto.
Le spese di lite possono essere compensate in ragione della novità della fattispecie.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 ottobre 2018 con l'intervento dei magistrati:


Carmine Volpe, Presidente
Roberta Cicchese, Consigliere, Estensore
Roberta Ravasio, Consigliere
 
 
 
ADUC - Associazione Utenti e Consumatori APS